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Introduzione alle Medicine Naturali

Introduzione alle Medicine Naturali

INTRODUZIONE ALLE MEDICINE NATURALI

DISCIPLINE DEL BENESSERE E BIONATURALI

di Daniele Belloni

“Egli che ha peccato contro il suo Signore, fallo cadere nelle mani dei medici”
Ecclesiaste

Introduzione alle Medicine Naturali. Quanti sono gli italiani che ricorrono alla medicina naturale o alternativa che dir si voglia? L’ultima ricerca Istat è un po’ stagionata (risale al 1991) e parla di cinque milioni di cittadini in cura presso omeopati, agopuntori e fitoterapeuti.
Siccome l’Istituto centrale di statistica aveva omesso a quei tempi di estendere l’indagine a metodi curativi quali aromaterapia, medicina tibetana e ayurvedica, shiatsu e yoga (discipline che insieme a tante altre hanno registrato nel frattempo un vero e proprio boom) pare ragionevole pensare che la cifra possa essere aumentata di molto, anche in relazione al dato che riguarda omeopatia, fitoterapia e agopuntura.
In effetti, secondo dati non ufficiali elaborati dal Comitato nazionale per la libertà di scelta terapeutica, sarebbero 12 milioni gli italiani che utilizzano del tutto o in parte la medicina naturale. Ma alle nude cifre non è consentito fotografare la realtà di un movimento che ha confini più vasti e sommersi e di cui i mass media si accorgono spesso con ritardo e grandi profusioni di stupore.
Credo che in questo campo si possa tranquillamente parlare di una “cifra oscura” inafferrabile alle indagini demoscopiche, vuoi per la ritrosia che ancora molte persone manifestano nel parlare dell’argomento (soprattutto coloro che ricorrono a pratiche più spirituali e in qualche modo, spesso sbagliato, avvicinate alla magia), vuoi perché il mondo della medicina naturale è in sé così sfumato, magmatico, non riducibile a poche, definite categorie.

Introduzione alle Medicine Naturali

Tra gli stessi operatori le impostazioni rispetto alla medicina ufficiale sono diverse: taluni ritengono, magari senza dirlo, di poterla sostituire in tutto, altri si pongono con la loro arte al servizio di una possibile integrazione tra medicina tradizionale e pratiche naturali, qualcuno invoca la collaborazione nel campo della ricerca, altri nutrono poca fiducia nell’establishment medico e nessuna in quello costituito dalle aziende farmaceutiche.

Lo stesso livello di preparazione e bravura dei terapeuti naturali è quanto mai disomogeneo: a scuole pluriennali che formano gli studenti secondo criteri piuttosto seri e severi, si affiancano associazioni improvvisate che rilasciano attestati dal dubbio valore. E’ un mondo che pullula di geniali guaritori e modeste figure, di potenziali pazienti che, dopo un week end di seminario, si trasformano in dottori-sciamani a cui si affiancano rispettabili “scienziati” (nel senso che possiedono forme di conoscenza) incamminati lungo un percorso di autoconsapevolezza. E non mancano psichiatri di fama, medici stufi della medicina ufficiale, ostetriche che hanno riscoperto il parto naturale e schivano l’impiego burocratizzato nelle fabbriche ospedaliere dove i bambini nascono con logiche da catena di montaggio.

Tutti costoro riescono a infondere nelle arti curative un grande senso di umanità e partecipazione, cosa che alla medicina ufficiale non riesce più. E con ciò si tocca un nervo scoperto in grado di far sobbalzare anche eminenti figure della medicina togata. Che dire diversamente di un libro come “L’arte perduta di guarire” del prestigioso cardiologo americano Bernard Lown? Un vero e proprio atto d’accusa del sistema medico americano (peraltro simile assai a quello europeo e italiano) che ribadisce a ogni pagina una semplice idea di fondo: oggi più che mai la medicina in Occidente deve tornare a mostrare il suo “volto umano”, recuperando il rapporto terapeutico con il paziente: “La medicina, a mio avviso” scrive Lown, “ha perso la sua strada, se non addirittura la sua anima. Il patto non scritto fra medico e paziente, consolidatosi attraverso i millenni, sembra essersi infranto”.

Parole che fungono da sigillo perfetto per quella sensazione diffusa di scollamento fra l’ufficialità in camice bianco e l’esercito dei cittadini-pazienti: la popolarità crescente cui vanno incontro le metodiche naturali (e che vorrebbero fare loro certa classe medica spalleggiata dall’industria farmaceutica, tutti uniti alla perenne ricerca di fette di mercato e guadagno) è la più eloquente risposta a chi oramai intende la professione medica come un gioco di ruolo a base di sostanza chimiche e supertecnologia.

Manifesto di questa rivolta che ha evidenti agganci con il successo della medicina alternativa potrebbero essere le parole di Anatole Broyard. Rivolgendosi al suo medico, poco prima di morire di tumore alla prostata, scrisse sul “New York Times Magazine”: “Lei prescrive analisi del sangue e radiografie ossee. Vorrei invece che analizzasse me oltre alla mia prostata, cercando a tentoni il mio spirito. Senza questo percorso non sono nient’altro che la mia malattia”.

E troppo spesso, purtroppo, il paziente deve subire un’ulteriore degradazione: dopo essere stato spossessato di un anima e identificato con la malattia, egli viene ridotto a trincea di una guerra che il medico ingaggia personalmente con i suoi organi malati. L’essere umano scompare, rimangono i freddi attributi biofisiologici. Cifre, grafici, percentuali.

E sembrano riecheggiare le parole dell’Ecclesiaste: “Egli che ha peccato contro il suo Signore, fallo cadere nelle mani dei medici”.

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Il libro di Lown è l’analisi spietata e circostanziata sullo stato della medicina alle soglie del terzo millennio. Non è l’atto di accusa di un guru della terapia alternativa e nemmeno il tentativo di racimolare in campo letterario una gloria altrimenti avara. Lown è l’inventore del defribrillatore a corrente continua che ha permesso innumerevoli progressi in cardiochirurgia e il suo nome si annovera tra i primi attuatori delle unità coronariche. Se un personaggio di tale calibro si siede al computer e comincia a lanciare strali sul moloch sanitario qualcosa di marcio, in Danimarca (e non solo), deve pur esserci.

E basterebbe citare una notizia pubblicata nell’agosto del 1994 sul “New York Times” (80 mila morti ogni anno negli ospedali americani per errori medici, una cifra superiore a tutti i decessi per crimini, incendi e incidenti stradali messi assieme) per concludere, paradossalmente, che l’ospedale è un posto assai rischioso per i malati.

Ma non c’entra l’incompetenza, o non come potrebbe sembrare. Il responsabile numero uno di questa strage ricorrente è l’eccessiva prescrizione di farmaci con i suoi effetti da interazione polifarmacologica. I medici fanno anamnesi superficiali, si affidano scriteriatamente alle supertecnologie e, dulcis in fundo, chiudono con una pioggia di sostanze chimiche. Come l’ultimo atto di Pascal: per quanto possa essere stata bella la commedia nelle altre sue parti, si butta un po’ di terra in testa e tutto è detto.

A parziale discolpa della classe medica occorre però riconoscere che non si tratta di sadismo allo stato puro e nemmeno, come menti maliziose potrebbero pensare, solamente di una saldatura tra gli interessi delle lobby farmaceutiche e mediche.

Certo negli episodi scabrosi che la cronaca porta a galla talvolta e in cui sono coinvolti esponenti, anche di primo piano, della classe medica, pare non essere rimasto granché del giuramento di Ippocrate.

Eppure il problema sta altrove, nell’impostazione globale del lavoro medico come si è venuta configurando oggigiorno che, purtroppo, un semplice atto della magistratura non potrà mai estirpare. Si tratta piuttosto di una rivoluzione delle coscienze cui i medici sono chiamati. Lo sviluppo della medicina occidentale che lavora sulla base di statistiche attendibili (e perciò deve maneggiare i dati di molti pazienti per poter trarre conclusioni scientificamente valide) ha portato a prestare maggiore attenzione alla malattia piuttosto che al malato.

E’ come se la medicina avesse abdicato a un suo ruolo specifico, la cura della persona-individuo, entità specifica con la sua biografia irripetibile, i suoi gusti, le sue idiosincrasie, per cavalcare dati e tabelle, proiezioni statistiche, probabilità. E’ come se al fuoco della passione, della vocazione alla cura, fosse subentrato il gelo del computer, l’inopinata elezione della tecnologia a totem, come se dietro a quella massa di cavi che giungono a schermi illuminati giorno e notte, su cui si inseguono bip oscuri e impersonali, non si celassero esseri umani, ma solo le “magnifiche sorti e progressive” della scienza.

Le ragioni che portano molte persone a rivolgersi alla terapia naturale stanno in buona parte in questo rapporto spezzato con la medicina convenzionale, nella diffidenza verso farmaci sempre più potenti e prescritti con troppa facilità, al punto che oramai, e la notizia pubblicata dal quotidiano “Repubblica” ha significativamente sollevato poco scalpore, anche ai bambini di sei anni vengono somministrati antidepressivi come il Prozac.

Forse la medicina occidentale è giunta al capolinea e deve invertire la marcia. Il contatto con realtà diverse come le terapie naturali può essere fecondo e decisivo, soprattutto per il recupero del rapporto medico-paziente che ha in sé grande potere curativo.
Chi si rivolge all’Operatore Shiatsu, all’omeopata o al lama guaritore della tradizione tibetana ha la sensazione che sia lui stesso, nella sua interezza di essere umano, a ricevere la cura e non il suo organo malato, parte separata di sé che ha evidenziato un problema clinico risolvibile sulla base di calcoli statistici e analisi di laboratorio. Certo non tutti coloro che si votano alla medicina naturale sono mossi da motivazioni filosofiche, qualcuno è più pragmatico e prova magari l’agopuntura perché il farmaco si è rivelato inefficace o ne teme gli effetti collaterali.

Introduzione alle Medicine NaturaliTuttavia è innegabile che l’ondata di neo-spiritualismo battezzata con il nome piuttosto generico di new age abbia interessanti riflessi anche in campo terapeutico. Da questo mutato panorama sociale sorge la ricerca di un livello di comunicazione terapeuta-paziente in cui quest’ultimo possa essere riconosciuto nella sua “umana totalità”, per dirla con il professor Servadio.

E’ indubbio che le pratiche mediche orientali sono sotto questo profilo più attrezzate per soddisfare la legittima richiesta di individualizzazione della cura, anche se non mancano formulazioni occidentali, come l’omeopatia, la medicina antroposofica, la floriterapia di Edward Bach o la respirazione olotropica ideata da Stan e Christina Grof, che si muovono in questa direzione. In Oriente, sia che si parli di medicina cinese, indiana o tibetana, l’uomo viene visto come immagine ridotta del cosmo, egli è specchio e riflesso della realtà universale, il suo corpo fisico è popolato da “venti” che soffiano attorno ad alberi cosmici, fiumi di energia, oceani di raccolta del principio vitale, palazzi, residenze, cancelli celesti.

Nel corpo umano vi sono metaforicamente le stesse materie costitutive del cosmo e l’indagine medica viene svolta tenendo presente i ritmi astrologici, le relazioni fra gli elementi, i cicli energetici in cui sono divise le giornate. Come se l’universo fosse uno sterminato Uomo cosmico che al posto degli organi possiede pianeti e sistemi stellari, così come taluni organi del corpo umano hanno corrispondenze planetarie. Il pensiero corre immediatamente a Ermete Trimegisto e alla sua enunciazione cara alla tradizione alchemica: “Ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per la meraviglia della Cosa unica”.

Per una tale visione della realtà, ogni essere umano è l’irripetibile combinazione dei medesimi elementi presenti ovunque nel creato, obbedisce alle stesse leggi che reggono i pianeti e governano le incessanti trasformazioni cui materia ed energia vanno incontro. Da simili presupposti sorgono di conseguenza concetti che all’Occidente razionalista suonano ancora piuttosto indigesti: l’energia vitale, i meridiani o canali in cui essa scorre, la possibilità di curare senza farmaci di sintesi, ripristinando semplicemente lo scorrimento dell’energia che viene chiamata prana in India, ki in Giappone, lung in Tibet, qi (si legge ci) in Cina, o affidandosi al rimedio omeopatico, o all’antica saggezza dell’erborista. Una simile realtà compenetrata di filosofia e religione(che soprattutto in Oriente non sono mai separate), di suggestioni taoiste, buddiste e indù, non può ridurre l’uomo a statistica, la malattia a semplice aggressione esterna da virus o batteri che può essere annientata grazie ai farmaci.

Eppure il confronto con l’Occidente è aperto, inevitabile, e si porta dietro contrasti apparentemente insanabili. Spinta dal globalismo, la filosofia buddista che vede nel karma contratto in vite passate la possibile causa di malattie conclamate nella vita presente si trova a dialogare con la medicina occidentale dominata da visioni materialiste ultratecnologiche. Non è semplice.

Eppure tentativi di favorire un incontro fra due mondi così diversi non mancano. Il pronunciamento dei National Institutes of Heath americani rappresenta un primo ponte gettato tra culture diverse: dodici fra statistici, epidemiologi, farmacologi, radiologi, medici di famiglia, neurologi e antropologi, oltre naturalmente a esponenti del mondo dell’agopuntura, si sono riuniti a Bethesda nel novembre del 1997 e dopo tre giorni di serrato confronto hanno riconosciuto con un atto ufficiale la validità di questa antichissima arte cinese. L’efficacia è stata scientificamente accertata nel controllo del dolore da estrazioni dentarie, nella nausea e nel vomito da chemioterapia e anestesia.

La stessa commissione, presieduta da David J. Ramsey, fisiologo e presidente dell’Università del Maryland, ha ritenuto “probabilmente efficace” la cura con gli aghi nei casi di artrite, dolori mestruali, dolori alla schiena e gomito del tennista.

L’ imprimatur scientifico sull’efficacia di queste pratiche curative non significa però che l’Occidente si sia convertito in blocco al taoismo filosofico. Sull’esistenza dell’energia vitale e dei meridiani anche gli scienziati più aperti al confronto continuano a nutrire robuste razioni di dubbio.

Per il comitato di Bethesda, infatti, l’applicazione degli aghi non influirebbe sullo scorrimento dell’energia qi, come sostengono da millenni i cinesi, bensì sul rilascio nel sistema nervoso centrale delle cosiddette endorfine, sostanze naturali che, similmente alla morfina, sono in grado di attenuare e rimuovere il dolore.

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Fonte Wikimedia

E’ la “teoria del cancello” enunciata per la prima volta nel 1965 da Ronald Melzack e Patrick Wall sulla rivista “Science”: la stimolazione lieve di alcune fibre nervose può sbarrare la strada alle sensazioni dolorose che perciò non possono raggiungere il cervello ed essere percepite coscientemente. La disputa andrà avanti per molto, si suppone.

Tuttavia questo pronunciamento è di innegabile portata storica e può rappresentare un primo momento di avvicinamento fra concezioni della vita e del benessere psico-fisico ancora molto distanti. E’ difficile dire dove potremo arrivare.

Di sicuro negli Stati uniti non mancano esempi di collaborazione fra medicina occidentale e orientale. Al Monterey Peninsula Community Hospital (California) viene utilizzato come assistente di sala operatoria un terapista energetico esperto di qi gong, un’antichissima arte curativa cinese che condivide gli stessi presupposti teorici dell’agopuntura, e numerose sono ormai le strutture cliniche che ricorrono agli aghi per indurre anestesia.

A volte si ha la netta sensazione che, nonostante la chiusura per certi versi comprensibile di taluni ambienti scientifici occidentali, il confronto sia destinato a risolversi in una specie di sincretismo medico che prenda il meglio di entrambe le tradizioni.

Negli Stati Uniti questo concetto circola da tempo, e sempre più organi d’informazione autorevoli (vedi il “Time” che vi ha dedicato una copertina) parlano diffusamente di “medicina integrata” volendo indicare la pratica terapeutica unificata secondo metodiche occidentali-orientali. Sembra un passaggio inevitabile, oltreché auspicabile: l’Occidente ha fatto passi da gigante nella ricerca e, grazie al metodo scientifico, ha spazzato via in pochi anni la maggior parte delle malattie per cui si moriva.

L’Oriente pare possedere una conoscenza magica e misteriosa in grado di trasformare un banale raffreddore in un evento cosmico per meglio curarlo e, attraverso la lente d’ingrandimento spirituale, risolvere un buon numero di malattie senza obbligare il paziente ai farmaci chimici. E’ veramente difficile, e al tempo stesso eccitante, prevedere sviluppi. E si resta sinceramente colpiti nel sentire un medico antroposofo (come è capitato a me durante la preparazione di questo libro) laureato regolarmente in Occidente e a tutti gli effetti uomo di scienza, parlare di karma e reincarnazione, prendere in considerazione la possibilità che tra le possibili cause di insorgenza della malattia ci possa essere un evento karmico, cioè qualcosa che risale a una vita precedente.

Stupisce sentirlo parlare di corpo astrale e spirito, di una realtà materiale che è solo il precipitato afferrabile dai sensi di quanto avviene a livello spirituale e che, perciò, deve essere indagato con l’occhio spirituale.

Tornerà il tempo in cui i medici saranno di nuovo guaritori e collaboreranno apertamente, a tutti i livelli, con i terapisti energetici? E le cabine orgoniche ideate da Reich potranno essere un giorno nel novero delle possibilità terapeutiche accettate anche dalla scienza ufficiale? Quando si sente di omeopati che percorrono irti crinali terapeutici costeggiando ampie valli spirituali e misteriche, o quando, come succede spesso, gli stessi medici allopatici si curano con lo shiatsu o la medicina antroposofica ed eminenti psichiatri parlano liberamente di reincarnazione, bene, viene da concludere che, forse, il tempo dell’integrazione e della sintesi sia già qui e solo i guardiani di una stanca ortodossia non se ne vogliano rendere conto

 

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